Tutela del Made in Italy e disciplina dell’etichettatura degli alimenti

Di:

08 Mar 2017

di Francesco Aversano


Sommario:

1. Più di una premessa.

2. Origine, provenienza e made in Italy.

3. Obiettivi del Reg. Ue n. 1169/11 e disciplina nazionale.

4. Pratiche d’informazione e condotte illecite.

5. Norme incidenti sul made in Italy.

6. Un possibile scenario mercantile: commodities “a marchio” e regimi di qualità.

7. Conseguenze sanzionatorie di una ripartizione.

8. Per un approccio “glocale” ai temi del made in Italy.


1. Più di una premessa.

Il tema dell’etichettatura dei prodotti alimentari si colloca al crocevia di plurime discipline, aventi differenziate origini e finalità, ma tutte in vario modo incidenti sulle regole della comunicazione nel mercato (Albisinni).

Per tale via, è possibile affermare che anche la delicata questione del “Made in Italy”, e della sua eterogenea tutela giuridica, andrebbe posta a confronto con la normativa sulle “informazioni alimentari”, di cui al Reg. Ue n. 1169/11; tale provvedimento – a livello orizzontale – propone nel suo articolato una gamma di precetti, obblighi e divieti che, in parte, riguardano anche la questione della origine e provenienza dei prodotti alimentari, fattispecie finitime a quella del “Made in Italy” (pregio inducibile dalla provenienza da uno Stato o Regione, per dirla con Masini).

Ed infatti, come affermato nel considerando n. 29 del Reg. n. 1169/11, le indicazioni relative al “paese d’origine” o al “luogo di provenienza” di un alimento dovrebbero essere fornite ogni volta che la loro assenza possa indurre in errore i consumatori per quanto riguarda il reale paese d’origine o luogo di provenienza del prodotto.

In tutti i casi, l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza dovrebbe essere fornita in modo tale da non trarre in inganno il consumatore e sulla base di criteri chiaramente definiti in grado di garantire condizioni eque di concorrenza per l’industria e di far sì che i consumatori comprendano meglio le informazioni relative al paese d’origine e al luogo di provenienza degli alimenti. Tali criteri non dovrebbero applicarsi a indicatori collegati al nome o all’indirizzo dell’operatore del settore alimentare.

Il tema dell’origine, legato a quello dell’etichettatura, è rilevante su più fronti: quello sanzionatorio (amministrativo e penale) e, al contempo, del “controllo ufficiale” e degli strumenti utili a salvaguardare i “beni giuridici” di base, coinvolti nella questione dell’origine: la lealtà commerciale, la sicurezza intrinseca delle derrate e la fiducia del consumatore all’atto dell’acquisto.

Nella declinazione dell’art. 517 c.p. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci), considereremo altresì la convergente tutela dell’ordine economico, bene giuridico senz’altro “capiente”, al punto da comprendere la difesa del produttore da illecite forme concorrenziali, la libertà e la buona fede dell’acquirente. Ciò comporta che, vendere o porre altrimenti in circolazione prodotti con segni mendaci (ad es. marchio “Made in Italy” fasullo), costituirebbe già una lesione effettiva “e non meramente potenziale” della lealtà degli scambi commerciali (così, Cass. Pen. Sez. III, 15.1.2008, n. 2003).

In tale prospettiva, proveremo ad indagare i cennati temi in relazione alla disciplina posta dal Reg. Ue n. 1169/11, muovendo dal presupposto che la normativa in materia di informazioni sugli alimenti proibisce l’utilizzo di informazioni “che possono indurre in errore il consumatore”, in particolare circa le caratteristiche dell’alimento (quindi anche sull’origine), i suoi effetti e le sue proprietà, o attribuire ad essi proprietà medicinali.

Per essere efficace, tale divieto dovrà estendersi anche alla pubblicità e alla presentazione degli alimenti, dunque non solo alla “etichettatura” stricto sensu, intesa come qualunque menzione, indicazione, marchio di fabbrica o commerciale, immagine o simbolo che si riferisce a un alimento e che figura su qualunque imballaggio, documento, avviso, etichetta, nastro o fascetta che accompagna o si riferisce a tale alimento (così, art. 3, co. 2, lett. j, Reg. Ue n. 1169/11).


2. Origine, provenienza e Made in Italy.

Per dimensionare il tema dell’origine e della provenienza degli alimenti, in rapporto alla nuova disciplina del Reg. Ue n. 1169/11, sembra opportuno partire da un dato giurisprudenziale di notevole spessore, che aiuta a ben inquadrare le nozioni in esame.

Ci riferiamo alla pronuncia della Corte di Cassazione penale, III Sez., Sent. n. 19093 del 3.3.2013, che ha confermata la legittimità del sequestro di confezioni di pistacchi di origine extraeuropea, con un’etichetta recante in caratteri di grandi dimensioni “sfiziosità siciliane, pistacchi sgusciati” e in basso, in caratteri assai più minuti, scarsamente leggibili a occhio nudo, la indicazione “ingredienti: pistacchi sgusc. Medit.”, poiché l’etichetta di tali prodotti è stata ritenuta idonea a generare la ragionevole convinzione nel consumatore che, diversamente dal vero, il pistacchio venduto con tale etichetta fosse di provenienza siciliana.

Da tale sentenza emerge inoltre una distinzione concettuale che non può essere trascurata in questa sede, perché riguarda nozioni fondamentali, a cui legare il portato specifico del Reg. Ue n. 1169/11:

Origine: “luogo geografico di produzione, che diviene senz’altro decisivo nell’accordo di vendita nel caso in cui il consumatore possa attribuire ad esso ragioni di particolare apprezzamento per le qualità o la bontà del prodotto”. Il paese di origine di un alimento, secondo il comma 3, art 2, Reg. Ue n. 1169/111, si riferisce all’origine di tale prodotto, come definita conformemente agli artt. da 23 a 26 del Reg. (CEE) n. 2913/92 (oggi Reg. Ue n. 952/2013).

Provenienza: “luogo di lavorazione del prodotto” secondo la Corte. Il luogo di provenienza, ai sensi dell’art. 2 lett. g) del Reg. Ue n. 1169/11, è invece “qualunque luogo indicato come quello da cui proviene l’alimento, ma che non è il “paese d’origine” come individuato ai sensi degli artt. da 23 a 26 del Reg. (CEE) n. 2913/92 (oggi, Reg. Ue n. 952/2013); il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta non costituisce un’indicazione del paese di origine o del luogo di provenienza del prodotto alimentare ai sensi del presente regolamento”.

La predetta distinzione andrebbe accostata ad un “precedente” specifico sempre relativo all’ingannevolezza di un marchio “made in Italy”, ove la Cassazione penale, Sez. III, Sent. n. 13712 del 14/04/2005, ebbe invece a qualificare l’origine quale locus (geografico) o “soggetto riferibile alla produzione, fabbricazione o coltivazione del prodotto”; e provenienza come luogo o soggetto che funge invece da “intermediario” tra produttore e acquirenti-consumatori.

Ciò premesso, è ovvio che il profilo della origine non esaurisca la “questione” del made in Italy, che specie sul versante sanzionatorio è di complessa articolazione, al punto da coinvolgere aspetti diversi (amministrativi e penali) e, nell’alveo penale, si nutre di una fattispecie “speciale”, quella dell’art. 16 comma 4 del D.L. 25.9.2009, n. 135, convertito con modificazioni nella L. n. 166 del 20.11.2009, il quale punisce – per il tramite dell’art. 517 c.p. e con pene aumentate di un terzo – chiunque faccia uso di un’indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale “100% made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano”, in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione (salve, sul punto, ipotesi amministrativamente sanzionate).

Sulla diversa natura sanzionatoria e, in primis, sulla rilevanza illecita delle condotte, si è appuntata l’attenzione anche del Tribunale di Salerno, Sez. I Pen., Sent. n. 143 del 22.3.2010, a proposito della tutela del marchiomade in Italy”, statuendo che:

– nell’ambito penale, rientrano tutti quei comportamenti che inducono il consumatore a ritenere erroneamente che la merce venduta sia prodotta in Italia, in presenza dell’utilizzo di espressioni ingannevoli, ovvero di simboli grafici che “producano il medesimo convincimento nell’utenza”.

– nell’area di rilevanza amministrativa del fatto, invece, residua l’uso tout court del marchio che, pur in assenza di espressioni o simboli apparentemente rivelatori della presunta italianità del prodotto, “possa comunque ingenerare nel consumatore la fallace percezione, indotta dall’assenza di precise ed evidenti indicazioni al riguardo, che la merce, in realtà di provenienza straniera, sia stata realizzata in Italia”.

Il Tribunale di Salerno, in buona sostanza, (ri)propone un iter argomentativo dal quale discende la natura afflittiva penale o amministrativa, sulla scorta di un noto precedente giurisprudenziale (Cass. Pen. Sez. III del 17.2.2005, Acanfora) avente ad oggetto la differenza terminologica (e concettuale) tra fallace, ciò che illude o inganna, e falso, ciò che invece risulta l’opposto del vero, attraverso una contraffazione o una cosciente alterazione.

La non facile qualificazione della condotta illecita, determinante anche la sanzione, presuppone un’attività di accertamento estremamente scrupolosa e di matrice essenzialmente documentale, ispirata alla generale disciplina del Reg. Ce n. 882/04, che non coinvolge solo la vigilanza sanitaria, ma anche quella sulla conformità alle normative tese a garantire pratiche commerciali leali per gli alimenti e tutelare gli interessi dei consumatori, comprese l’etichettatura degli alimenti e altre forme di informazione dei consumatori (quelle di cui al Reg. Ue n. 1169/11).

Per un efficace controllo sulle derrate alimentari “made in Italy”, rectius sulla produzione ed etichettatura dei prodotti a tale “marchio”, a nostro parere, potrà essere utile recuperare una fattispecie a volte “sottovalutata” nel sistema alimentare, qual è la “rintracciabilità”. Nell’intento del legislatore, tale “strumento” nasce infatti per poter procedere a ritiri mirati e precisi di alimenti “a rischio” o fornire informazioni ai consumatori o ai funzionari responsabili dei controlli, evitando così disagi più estesi e ingiustificati quando la sicurezza degli alimenti, anche a marchio Made in Italy, sia posta in pericolo.

Della rintracciabilità, com’è noto, si hanno due “fondamenti” nel Reg. Ce n. 178/02:

– un primo, di cui all’art. 3, da leggersi quale vera e propria “nozione”, ossia la possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o atta ad entrare a far parte di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione;

– un secondo, operativo o funzionale, di cui all’art. 18, che disciplina la rintracciabilità nei rapporti in filiera, recando altresì un collegamento specifico tra questa fattispecie e l’etichettatura: gli alimenti o i mangimi che sono immessi sul mercato della Comunità o che probabilmente lo saranno devono essere adeguatamente etichettati o identificati per agevolarne la rintracciabilità, mediante documentazione o informazioni pertinenti secondo i requisiti previsti in materia da disposizioni più specifiche.

Ricorrendo esclusivamente al linguaggio potremmo intendere la rintracciabilità nel senso etimologico di trovare (o scoprire) seguendo tracce, il che collocherebbe l’istituto al centro del controllo ufficiale, con vantaggi, sia pure di diversa natura, per i tre attori del “sistema alimentare”: il “controllore” (gli Stati), il “controllato” (operatore e imprese) e il consumatore.

In tale ottica, la rintracciabilità potrà essere uno “strumento” operativo utile davvero a tutti, poiché in grado di garantire la trasparenza dei processi produttivi “a base” del made in (quale procedura); al contempo, di salvaguardare la scelta consapevole e adeguata del consumatore (quale garanzia).

Infine, potrà svolgere una funzione distintiva dal punto di vista informativo, qualificandosi come opportunità per l’impresa al fine di caratterizzare i propri alimenti sul mercato (adeguatamente tracciati ed etichettati), dimostrando al controllore (a monte) e al consumatore (a valle) l’eventuale italianità della filiera produttiva.


3. Obiettivi del Reg. Ue n. 1169/11 e disciplina nazionale.

L’art. 3 del Reg. Ue n. 1169/11, tra gli obiettivi generali, stabilisce che la fornitura di informazioni sugli alimenti tende a un livello elevato di “protezione della salute” e degli “interessi dei consumatori”, fornendo a questi le basi per effettuare “scelte consapevoli” e per utilizzare gli alimenti “in modo sicuro”, nel rispetto di considerazioni sanitarie, economiche, ambientali, sociali ed etiche.

E proprio sugli interessi dei consumatori insiste il provvedimento basilare dell’ordinamento alimentare, ossia il già richiamato Reg. Ce n. 178/02, che contempla tra l’altro il contrasto a quelle “pratiche generalmente fraudolente o ingannevoli”, in grado, da un parte, di indurre in errore l’acquirente sotto il profilo comunicativo e, dall’altra, integranti una forma di concorrenza sleale, ex art. 2598 n. 3 cod. civ. e d. lgs. del 2.8.07, n. 145, ove tali pratiche assumano dimensione di “pubblicità menzognera” (in tal senso, Trimarchi).

E di solito tali condotte sono attribuite, in base al Codice del Consumo, alla competenza dell’AGCM, vigilante sui principi generali della correttezza e trasparenza delle comunicazioni pubblicitarie che “si riempiono di contenuto attraverso l’obbligo di informare i consumatori sulla reale natura, caratteristiche e proprietà del prodotto” (così in dottrina, Astazi).

Pur tuttavia, in presenza dei presupposti soggettivi e oggettivi, è possibile che gli illeciti di natura informativa possano ricondursi addirittura al delitto, in primis all’art. 515 cp (frode nel commercio), anche nell’ipotesi del tentativo (ex art. 56 c.p.), configurabile ove sia adeguatamente accertata anche la “mera” destinazione alla vendita di un alimento diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite (così, Cass Pen. Sez. III n. 41758, 25.11.2010).

Al di là delle ipotesi criminose, la materia dell’etichettatura si compone anche di una disciplina nazionale, affidata in passato al d.lgs. n.109/92, e oggi in profonda rimodulazione, con riguardo anche al profilo sanzionatorio; si veda in proposito la Circolare del MISE del 6.3.2015, sull’applicazione dell’articolo 18, in materia di sanzioni, del Decreto Legislativo 27 gennaio 1992, n. 109 alle violazioni delle disposizioni del regolamento (UE) n. 1169/2011.

Tale atto, destinato alla transitoria applicabilità delle sanzioni, muove dal criterio che le disposizioni punitive previste dall’art. 18 del D. Lgs. 109/1992, per la violazione delle disposizioni (nazionali) in esso contenute, “devono intendersi applicabili soltanto ai precetti confermati dal regolamento”.

Le sanzioni amministrative previste dall’art. 18, secondo la Circolare, rimarranno applicabili alle violazioni delle disposizioni del D. Lgs. n. 109/92 (che restano in vigore) “in quanto riguardanti materie non espressamente armonizzate dal Regolamento, quali, ad esempio, il lotto o i prodotti non preconfezionati”.

Con riguardo all’origine dei prodotti, fattispecie rientrante nell’ambito del “Made in Italy, il provvedimento del MISE ha previsto una sanzione specifica da € 3.500,00 ad € 18.000,00, nel caso di una violazione dell’art. 26, par. 2, lett. a) del Reg. Ue n. 1169/11, sull’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza “nel caso in cui la sua omissione possa indurre in errore il consumatore” e, in particolare, se le informazioni che accompagnano l’alimento o contenute nell’etichetta nel loro insieme “potrebbero altrimenti far pensare che l’alimento abbia un differente paese d’origine o luogo di provenienza”.

La Circolare ripropone, tra altro, la questione sulla presenza o meno del rapporto di specialità tra d. lgs. n. 109/92 (e quel che sarà, forse un DPCM) e fattispecie penali di cui agli artt. 515 c.p. e ss.; tale rapporto, alla luce della giurisprudenza profusa in materia, deve considerarsi inesistente, stante un diverso ambito di efficacia della disposizione amministrativa sull’etichettatura (posta affinché non si attribuisca all’alimento una proprietà che non possiede o non si crei confusione divulgativa), rispetto a quella, ad esempio, della frode in commercio, che tutela invece “il corretto svolgimento dell’attività commerciale”. Il che significa che il campo di azione dell’illecito amministrativo rimarrebbe “circoscritto alle sole ipotesi di ingannevolezza che non abbiano carattere fraudolento” (in tal senso, Pacileo).

In alcuni casi, tuttavia, l’etichettatura ingannevole è stato ritenuta elemento centrale anche per imputazioni quali l’art. 517 c.p. (vendita di prodotti con segni mendaci), aggravate ex art. 517 bis (per i prodotti a denominazione protetta); interessante all’uopo è il richiamo di un “capo di imputazione” elevato nei confronti di un operatore del settore alimentare pugliese (in un procedimento penale in corso) per la vendita di un pane surgelato, parzialmente cotto, confezionato e sigillato all’origine, recante in etichettatura la dicitura “pane di semola con semola rimacinata di grano duro di Altamura”, un alimento “oggetto” della denominazione protetta Pane Dop di Altamura. Al contempo, dicitura idonea – secondo l’imputazione – ad indurre in inganno i compratori circa “l’origine, la provenienza e/o qualità (sic) del rinomato pane e del grano duro di quel centro, tali da ingenerare confusione sulla identità del prodotto realizzato in realtà con una miscela di grano duro canadese, francese, nazionale e kazako”.

Sul punto, non deve sfuggire che le nostre denominazioni protette (DO e IG), a cui presidio si muove il Reg. Ue n. 1151/12, sono la categoria più importante del made in Italy alimentare (il “nato” in Italia), poiché mirano a garantire al consumatore l’identità dell’origine territoriale del prodotto, e per questo, paradossalmente, sono le eccellenze più esposte alla contraffazione, alla fraudolenta imitazione o all’evocazione per il tramite di un generico o surrettizio richiamo topografico.

Come stabilito dal T.A.R. Sicilia Catania Sez. II Sent. del 28.6.07, n. 1133, però, la valutazione sul carattere usurpativo, imitativo o evocativo di una denominazione generica rispetto ad una denominazione registrata, “esige che il giudizio si fondi sulla percezione complessiva che di tale denominazione ha il pubblico interessato” e giammai sulla presunzione che “elementi singolarmente privi di carattere imitativo non possano, una volta combinati, presentare siffatto carattere”.

La pronuncia si muove nel senso di un’ampia tutela dell’acquirente sotto il profilo informativo, ove afferma che i diversi elementi, anche combinati tra di loro, possono altresì determinare una “somiglianza sufficiente a comportare un rischio di confusione agli occhi del consumatore”, il quale percepisce normalmente un marchio o una denominazione “come un tutt’uno” e, pertanto, “non procede ad un esame dei suoi vari dettagli”.


4. Pratiche d’informazione e condotte illecite.

Il tema dell’origine delle derrate o della provenienza attestata dal produttore (made in) interseca la disciplina delle pratiche leali di informazione, poste dall’art. 7 del Reg. Ue n. 1169/11 affinché sia assicurata la corretta cognizione del consumatore, prevenendo equivoci anche sull’origine del prodotto, sia con riferimento al contenuto dell’etichettatura sia, più in generale, alle modalità di presentazione complessive dell’alimento.

Una pratica sleale d’informazione costituisce un illecito sanzionabile normalmente per via amministrativa, in base alla Circolare MISE del 6.3.2015, da € 3.500,00 ad € 18.000,00, ove la pratica si esaurisca in una mera confusione informativa, e non determini un potenziale “rischio” alimentare, inficiante addirittura la sicurezza stessa dei prodotti.

Per questo motivo è necessario “sistemare” la fattispecie di cui all’art. 7 del Reg. Ue n. 1169/11 nell’alveo di due fondamentali regole contenute nel provvedimento orizzontale sulla sicurezza alimentare (artt. 8 e 14 del Reg. Ce 178/02):

– l’art. 8 riguarda la tutela degli interessi dei consumatori e vieta di fatto all’operatore l’impiego di pratiche fraudolente o ingannevoli, quali ad esempio la vendita dell’aliud pro alio, ad esempio di un alimento importato dall’estero e smerciato per “tutto italiano” o, ancora, con un ingrediente comune, “spacciato” invece per DOP o IGP;

– l’art. 14 del Reg. n. 178/02 determina le condizioni per valutare se un alimento sia “a rischio”, non solum con riguardo ai pericoli sanitari, sed etiam a “tutte le informazioni messe a disposizione del consumatore, comprese le informazioni riportate sull’etichetta o altre informazioni generalmente accessibili al consumatore sul modo di evitare specifici effetti nocivi per la salute provocati da un alimento o categoria di alimenti”.

La considerazione del “rischio informativo” connesso alla salute del consumatore, legittima un’indagine che non può confinarsi all’etichettatura in sé, ma dovrà estendersi necessariamente alla possibile diversità delle condotte illecite imputabili all’operatore del settore alimentare; condotte che potranno:

a) inquadrarsi nella mera slealtà (che dunque non si traduce in frode e rimane nell’alveo dell’illecito amministrativo);

b) conclamare, invece, una frode in commercio con riguardo alla consegna di un aliud pro alio sulle caratteristiche dell’alimento e, in particolare, la natura, l’identità, le proprietà, la composizione, la quantità, la durata di conservazione, il Paese d’origine o il luogo di provenienza, il metodo di fabbricazione o di produzione.
Sul punto, si può riportare quanto alla sentenza della Cassazione Penale, Sez. III del 6.10.2010 n. 39714, che configura il reato di frode nell’esercizio del commercio, anche in assenza della “necessaria” pericolosità, bastando invece che il prodotto sia commercializzato con indicazioni non veritiere (vino da tavola spacciato per IGT Toscano).

c) Riguardare, infine, il più grave caso (a cui si riferisce l’art. 14 del Reg. Ce n. 178/02) in cui l’operatore attenti anche in via potenziale la salute del consumatore con informazioni sanitarie o salutistiche specificamente scorrette e fuorvianti per il consumatore sul modo di evitare effetti nocivi per la salute provocati dal prodotto alimentare.
Ex multis, si veda l’incrocio tra profili salutistici e informativi, su cui verte l’analisi della Corte di Giustizia (Sez. III, sent. 6.9.12, causa C-544/10), che ha, ad esempio, impresso un generale divieto di pubblicizzare un vino come “facilmente digeribile.
Tali comportamenti, in presenza di una pericolosità intrinseca dell’alimento, potranno integrare ipotesi concorrenti a quelle di frode e di cui all’art. 444 c.p. (commercio di sostanze pericolose) oltre che agli artt. 5 e 6 della l. n. 283/62.

Le (specifiche) “pratiche d’informazioni sleali” andranno altresì parametrate con le generali pratiche commerciali scorrette di cui al d.lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) che, agli artt. 20 e 21, vieta:

– quelle contrarie alla diligenza professionale, false o idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che esse raggiungono o al quale sono dirette o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori;

– le pratiche ingannevoli che contengono informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corrette, in qualsiasi modo, anche nella presentazione complessiva, inducono o sono idonee ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo inducono o sono idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso, circa:

a) l’esistenza o la natura del prodotto;

b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto.

Quant’anzi emerge chiaramente dalla sentenza del T.A.R. del Lazio, Sez. I, n. 6699, del 16.7.2014, in tema di indicazioni nutrizionali con locuzioni come “senza zuccheri“, “senza zuccheri aggiunti” oppure “senza zuccheri con…”, ove si evidenzia che “alla qualificazione della gravità del comportamento illecito accertato correttamente effettuata in astratto in ragione dell’importanza e della dimensione economica del professionista nonché della capacità penetrativa della pratica e del correlato pregiudizio economico per i consumatori”, dovrà far seguito una “parimenti corretta perché proporzionata individuazione della misura da adottare, in concreto, nei confronti dell’impresa, quale mezzo ripristinatorio dell’ambito di legalità violata”.

Il che significa che l’AGCM o il Giudice amministrativo dovrà, ad esempio, valutare con favore il ravvedimento operoso dell’operatore e la cessazione del comportamento illecito già nel procedimento sanzionatorio, nel solco dei criteri di cui all’articolo 11 della l. n. 689 del 1981, che impone non solo la verifica della gravità della violazione commessa, ma anche dell’attività svolta in concreto dall’operatore per eliminare o attenuare l’infrazione.


5. Norme incidenti sul made in Italy.

Alla luce di quanto finora evidenziato, appare palese che l’informazione, in ispecie l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità, incidano profondamente sul “sistema alimentare” e, quindi, anche sulla questione del made in, tema sul quale la giurisprudenza ha espresso importanti rilievi a tutela degli acquirenti.

Si veda, ad esempio, la pronuncia della Corte di Cassazione (III Sez., 15.4.2005, Tarantino), ove si è stabilito che l’apposizione di una scritta o etichetta recante la dicitura “prodotto in Italia” o “made in Italy” su un prodotto fabbricato all’estero, non importa se per conto di un produttore italiano, è sicuramente idonea a trarre in inganno il consumatore.

Con l’entrata in vigore del Reg. Ue n. 1169/11, tuttavia, il profilo delle condotte rilevanti dal punto di vista illecito potrebbe ulteriormente integrarsi, non tanto con le norme tecniche ivi contenute, ma traendo fonti comportamentali (di rilevanza anche penale) nei principi posti da tale provvedimento, che – tra altro – disciplinano le informazioni obbligatorie sugli alimenti da fornire al consumatore finale e alle collettività.

L’art. 4 del Reg. Ue n. 1169/11, tra i principi che disciplinano le informazioni obbligatorie, riferisce proprio dell’identità, della composizione, delle proprietà o altre caratteristiche dell’alimento. In tal senso, parliamo di veri e propri “fattori identitari” che soggiacciono al Made in Italy e risultano fondamentali per la tutela dei prodotti alimentari recanti tale “marchio”.

Della correttezza di tali indicazioni, ai sensi dell’art. 8 del Reg. Ue 1169/11, ne risponderà l’operatore con il cui nome o con la cui ragione sociale è commercializzato il prodotto o, se tale operatore non è stabilito nell’Unione, l’importatore nel mercato dell’Unione.

Tale operatore, infatti, oltre alla basilare responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione, quale “responsabile delle informazioni sugli alimenti”, risponderà specificamente delle medesime, assicurandone la presenza e l’esattezza conformemente al Reg. Ue n. 1169/11 e ai requisiti delle pertinenti disposizioni nazionali (quel che sarà nel nuovo DPCM, anticipato dalla Circolare Mise 6.3.2015).

In presenza dell’elemento soggettivo del dolo, come detto, la condotta informativa illecita potrà integrare una fattispecie di reato, nei casi in cui venga leso, ad esempio, il bene giuridico del leale esercizio del commercio (art. 515 c.p.). Competerà tuttavia all’autorità giurisdizionale procedente l’accertamento dell’esistenza degli elementi costitutivi del reato, tra cui appunto la coscienza e la volontà di consegnare una cosa diversa da quella pattuita, non occorrendo particolari artifizi o raggiri da parte del venditore, essendo “insito l’inganno nella obiettività della consegna” dell’aliud pro alio (così, Cass. Pen. 26.2.73, n. 338 Montali).

Integrerà invece il reato di cui all’art. 517 c.p., in relazione all’art. 4 comma 49 della L. n. 350/03, la commercializzazione di prodotti agroalimentari etichettati con marchio “dop” non corrispondente al vero o “fallace”, in quanto per tali prodotti alimentari, aventi una “tipicità territoriale”, l’origine cui si riferisce la norma sanzionatoria non è solo quella “imprenditoriale”, ma soprattutto quella “geografica”. In tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione Pen. Sez. III 19.7.2011, n. 28740, in materia di prodotti pomodori pelati, commercializzati con etichetta “Prodotto della regione DOP San Marzano Pomodori Pelati Italiani”, ma in realtà coltivati e raccolti in Puglia.


6. Un possibile scenario mercantile: commodities “a marchio” e regimi di qualità

Per poter affermare l’origine o la provenienza qualificata dell’alimento, l’operatore si troverà di fronte a un possibile contesto commerciale che, per comodità espositiva, sarebbe utile discernere essenzialmente per tipi di prodotto, anche in base alla legislazione del settore: alimenti “Made in Italy” e regimi di qualità (DO, IG).

a)
I prodotti “made in Italytout court sono quelli sui quali, in presenza dei requisiti normativi, l’operatore attesti o apponga tale dicitura (o altra similare), ma che restano tuttavia commodities; pertanto, in caso di falsificazioni sarà difficile applicarsi l’art. 474 c.p. (commercio di prodotti con segni falsi) perché tale reato, tutelando la fede pubblica, richiederebbe la contraffazione o l’alterazione di un marchio o segno distintivo della merce giuridicamente protetto e riconosciuto, a differenza dell’art. 517 c.p. che invece tutela l’ordine economico e “richiede la semplice imitazione del marchio, non necessariamente registrato o riconosciuto, purché detta imitazione sia idonea a trarre in inganno gli acquirenti” (così, Cass. Pen. Sez. V, 2.8.2007, n. 31842).

A supplire tale possibile deficit repressivo, v’è la già cennata disciplina dell’art. 4, comma 49, della l. n. 350/03, norma che assume rilievo perché ha normativamente fissato le condizioni che devono ricorrere per stabilire quando un prodotto possa qualificarsi come fabbricato o non fabbricato in Italia.

Secondo la Corte di Cassazione, Sez. III, Sent. 7.1.2008, n. 166, il legislatore con tale regola ha inteso definire “meglio” l’ambito dell’illecita provenienza dei prodotti con segni mendaci, senza però fissare una definizione diorigineo diprovenienza che si discosti da quella costantemente enunciata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ai sensi dell’art. 517 c.p., per origine o provenienza di un prodotto “dovrà intendersi la provenienza del prodotto stesso da un determinato produttore e non già da un determinato luogo, limitandosi a prevedere che l’utilizzo di diciture quali prodotto in Italia o made in Italy, nel caso che un prodotto fabbricato all’estero per conto di un produttore italiano, risulta sicuramente idoneo a trarre in inganno il consumatore ai sensi dello stesso art. 517 c.p.” (ma sul punto vale pure quanto detto in precedenza sulla diversità concettuale tra origine e provenienza).

Sulle commodities che si pregiano del marchio made in graverà, peraltro, la normativa doganale, in ispecie l’art. 60 del Reg. (UE) n. 952/2013 sull’acquisizione dell’origine, che non si riferisce solo alle merci interamente ottenute in un unico paese o territorio (che sono considerate originarie di tale paese o territorio), ma anche a quelle alla cui produzione contribuiscono due o più paesi o territori. “Anche queste”, secondo la norma, saranno considerate “originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale”, in presenza di una economica giustificazione, ed effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.

Sull’origine “non preferenziale delle merci e sul requisito indispensabile della “giustificazione economica”, pare opportuno citare la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore n. 404/12, nella quale si considerano questi importanti aspetti della disciplina del made in Italynon preferenziale” con riguardo a un “triplo concentrato di pomodoro” proveniente dalla Repubblica Popolare Cinese, ridotto a doppio concentrato mediante la mera aggiunta di acqua e sale, e destinato al mercato estero prevalentemente UE con le “false” indicazioni di “Produced of Italy“, “Fabbriquè en Italie“. Nella sentenza di merito si è altresì considerato che, in assenza di utilità evidenti per l’azienda, tali da far ritenere l’operazione economicamente giustificata, può solo residuare il “sospetto che l’unica motivazione economica che sostenga una siffatta strategia imprenditoriale sia quella di poter apporre l’ambito marchio “made in Italy, particolarmente apprezzato all’estero, soprattutto nel settore agroalimentare, “su prodotti di provenienza non nazionale, acquisiti a basso costo, di minore appetibilità commerciale”.

b)
Accanto ai predetti alimenti “a marchio” made in Italy vanno posti gli alimenti DO e IG, qualificati dal Reg. Ue n. 1151/12 regimi di qualità e per i quali è previsto il “riconoscimento”, l’esistenza di disciplinari di produzione, la tutela dei segni e la previsione di ente privati di controllo e certificazione di tali denominazioni geografiche. A ciò si aggiunga un fattore di assoluta peculiarità: la protezione ex officio ai sensi dell’art. 13 del Reg. Ue n. 1151/12, disciplinata in Italia dall’art. 16 del Decreto Mipaaf 14.10.2013 contro ogni forma di illecito utilizzo o pratica ingannevole delle (e sulle) DO e IG.
La tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche (non trascurando le STG, ossia le specialità tradizionali garantite), nello spirito comunitario, non si ferma quindi al “riconoscimento”, ma è estesa ai casi di usurpazione, imitazione ed evocazione dei nomi registrati relativi sia a beni che a servizi, onde garantire un livello di tutela elevato anche quando le DOP o le IGP siano utilizzate come “ingredienti” di alimenti comuni.

La “protezione” è un elemento distintivo per tali derrate che si affianca agli obiettivi generali posti dal Reg. Ue n. 1151/12, ossia:

garantire ad agricoltori e produttori un “giusto guadagno per le qualità e caratteristiche di un determinato prodotto o del suo metodo di produzione”;

fornire “informazioni chiare sui prodotti che possiedono caratteristiche specifiche connesse all’origine geografica, permettendo in tal modo ai consumatori di compiere scelte di acquisto più consapevoli”.


7. Conseguenze sanzionatorie di una ripartizione

Alla luce della cennata (possibile) suddivisione, potrebbe apparire “fallace” – per rimanere in tema – associare i segni distintivi DO e IG, quali espressione di colleganza territoriale definita e garantita (“nati” in Italia), al marchio tout court “made in Italy” (apposto o proposto dall’operatore), che invece pare esprimere una generale appartenenza imprenditoriale (preferenziale o no) della merce al nostro Paese.

In tal senso, è condivisibile il pensiero per cui il made in Italy non esprimerebbe un vero e proprio marchio, ma una “denominazione di origine geografica semplice” che non gode di una disciplina comunitaria, ma sulla quale insistono precetti orizzontali (quali in primis il Reg. Ue n 1169/11) e fattispecie sanzionatorie anche specifiche.

Sulla diversità tra prodotti meramente “made in Italy” e alimenti DOP e IGP, ci supporta l’interpretazione della Corte di Cassazione, Sez. III, Sent. n. 27250 del 2007, secondo cui i marchi DOP e IGP differiscono sostanzialmente dal marchio di origine “made in Italy”, in quanto presuppongono l’esistenza di un collegamento dimostrabile – attraverso appositi disciplinari – “fra una determinata caratteristica del prodotto e un determinato luogo di produzione, spazialmente determinato”.

Al contrario, il marchio di origine made in Italy “non presuppone e non assicura in alcun modo la presenza di specifiche caratteristiche dei prodotti, ma si limita ad indicare al consumatore che l’impresa che ha realizzato il prodotto è ubicata in un determinato paese”. Si tratta cioè di una “situazione assimilabile” a quella che la Corte di Giustizia europea ha definito come “denominazione di origine geografica semplice”, ovvero indicazione che “non implica alcun rapporto tra le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica” (C.G.E., Sent. 7.11.2000, nel proc. C-312/98).

La differenza tra prodotti aventi caratteristiche spaziali e materiali (con un proprio disciplinare produttivo) e quelli che invece si fregiano della sola e generica “attestazione” made in Italy, si eleva, come detto, anche dal punto di vista della disciplina e delle sanzioni.

a) Nel primo caso, quello della disciplina, perché la tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche s’invera dapprima nel riconoscimento comunitario ed è poi estesa ai casi di contraffazione o usurpazione.
La Suprema Corte ha ritenuto tuttavia insussistente le fattispecie delittuose di cui agli artt. 515 e 517 c.p. nel caso dell’uso di una denominazione generica di alimento (condimento “balsamico bianco”), “quantunque evocativa di altra origine protetta”, che “non è di per sé idonea a configurare la consegna di aliud pro alio o il carattere ingannevole del nome, marchio o segno distintivo” (in tal senso, Cass. Pen. Sez. III n. 21279 del 24.1.2012). Sembra chiara allora la diversificazione tra prodotti specificamente “made in Italy” (quali DO e IG), in cui la locuzione made in non appare a volte neanche espressa, perché ultronea e assorbita nelle sigle DO o IG, e quelli genericamente riportanti la voce “made in Italy” (ove invece è necessitato il richiamo lessicale), per i quali s’impone un primario recupero delle fattispecie di cui al Reg. Ue n. 1169/11 per integrare eventuali condotte illecite rilevanti, residuando le fattispecie delittuose di frode e quelle specifiche della legge n. 350/03.

b) Con riguardo alla diversità afflittiva tra commodities sia pure “made in Italy” e prodotti italianidi qualità” (di cui al Reg. Ue 1151/12), è opportuno rammentare per le DO e IG l’impianto sanzionatorio amministrativo (specifico) del d. lgs. n. 297/04, che si affianca a quello penale e in primis all’art. 517 quater c.p., che come detto tutela il consumatore proprio in relazione all’affidamento o sicurezza dell’origine geografica dell’alimento e che si realizza, appunto, nel riconoscimento comunitario (e nella protezione ex officio) delle DO e IG legate ad un territorio delimitato e, peraltro, assorbe la disciplina degli artt. 29 e 30 del Codice della Proprietà Industriale sulle indicazioni geografiche.


8. Per un approccio “glocale” ai temi del made in Italy.

Il considerando n. 26 del Reg. Ue n. 1169/11 pone una questione di non secondario rilievo quando evidenzia che le etichette alimentari dovrebbero essere “chiare e comprensibili per aiutare i consumatori che intendono effettuare scelte alimentari e dietetiche più consapevoli”. Perciò, per tener conto di tutti gli aspetti relativi alla leggibilità, compresi carattere, colore e contrasto, “è opportuno sviluppare un approccio globale”, che comprenda anche la vendita di alimenti mediante tecniche di comunicazione a distanza.

In tale preambolo possiamo cogliere la volontà comunitaria di una tutela informativa trasversale, che abbracci tutte le forme di offerta al pubblico relative ai prodotti comuni, alle commodities che si fregiano del “made in Italy” (apposto o impresso) e ai prodotti italiani DOP e IGP, di cui al Reg. Ue n. 1151/12.

Come già detto, ci troviamo di fronte ad un contesto mercantile eterogeneo, per tipi di alimenti e spazi di vendita, e che definire “globale” potrebbe apparire addirittura limitativo. Questo, anche perché il termine “globale”, e il suo significato, finirebbero per offuscare l’importante profilo “locale”, altrettanto rilevante, che si compone di luoghi specifici, zone determinate, storie e tradizioni alimentari risalenti a particolari aree geografiche.

Per superare una possibile antitesi tra “globale” e “locale”, potrebbe allora propendersi per un approccio “glocale (armonico) ai nostri temi, neologismo già in voga all’interno di settori diversi dal diritto (es. filosofia, sociologia, marketing) e che sarebbe utile adoperare anche con riguardo agli alimenti, sulla scorta dei principi insiti nell’ordinamento alimentare, composto da normative orizzontali (quali, ad esempio, i regolamenti comunitari nn. 178/02, 852/04 e 1169/11) e verticali (appunto il Reg. Ue n. 1151/12).

Un metodo di lettura “glocale” che partendo dalla legislazione guardi poi al mercato nel suo insieme e agli spazi di sviluppo dei prodotti geograficamente riconoscibili, realizzerebbe una prospettiva diversa da quella autoreferenziale (tendente al retorico “localismo”), poiché protesa ad un reale sviluppo mercantile anche delle risorse e delle tradizioni locali. Ciò comporterebbe un diverso approccio anche al made in Italy, a cui sarà possibile affidare una definitiva identità “glocale”, dato il contesto “relazionale” sicuramente disomogeneo, costituito non solo da piccoli imprenditori (e prodotti di nicchia), ma anche da imprese multinazionali che utilizzano a vario titolo il marchio de quo, anche sulle commodities.

Da tale contesto ovviamente vanno esclusi i fenomeni criminali di contraffazione e di italian sounding, imputabili anche ad operatori stranieri attraverso un made in other countries spacciato per italiano.

In tale quadro, la normativa alimentare potrà assumere natura di “collante” in un contesto mercantile dove riposano principi normativi, anche a livello internazionale, di indubbio valore, ma difficile applicazione in quanto fondati sul criterio della “territorialità”. Basti pensare all’Accordo di Madrid del 1891 sulla repressione delle false o ingannevoli indicazioni di provenienza o alla Convenzione di Parigi sulla protezione della proprietà intellettuale da fenomeni di concorrenza sleale gravanti sulle indicazioni geografiche, e che all’art. 10 bis vieta, tra altro, le indicazioni o asserzioni il cui uso, nell’esercizio del commercio, possa trarre in errore il pubblico sulla natura, il modo di fabbricazione, le caratteristiche, l’attitudine all’uso o la quantità delle merci.

Quant’anzi, nella considerazione che la tutela delle produzioni “a marchio” made in vada effettivamente estesa a livello transfrontaliero, attraverso l’impiego di condivise strategie di contrasto alla concorrenza sleale, fattispecie sulla quale insiste il Trattato TRIPS, in ispecie gli artt. 22 (protezione delle indicazioni geografiche) e 3, paragr. 1 (trattamento nazionale), posto con l’intento di “rimuovere le barriere che ostacolano una piena e leale concorrenza fra le imprese” (in tal senso, Albisinni).

A livello comunitario, la situazione è (apparentemente) più semplice per i prodotti DOP e IGP, stante la protezione ex officio in tutti i Paesi membri, ai sensi del Reg. Ue n. 1151/12, e un po’ più complessa per i prodotti “meramente” made in.

Per questi ultimi, allora, andrebbe valorizzata la funzione del Reg. Ue n. 1169/11, il quale per la prima volta pone una disciplina comune sull’informazione alimentare per tutti i Paesi membri e, al contempo, eleva l’informazione (anche sull’origine e provenienza) da interesse tutelato del consumatore a “diritto” proprio della persona, fissando gli strumenti volti a garantire il diritto dei consumatori all’informazione e le procedure per la fornitura di informazioni sugli alimenti, tenendo conto dell’esigenza di prevedere una flessibilità sufficiente in grado di rispondere alle evoluzioni future e ai nuovi requisiti di informazione.

Non va trascurato, peraltro, che tra gli obiettivi fissati dall’art. 3 del Reg. Ue n. 1169/11 v’è proprio quello di fornire regole e condizioni per la libera circolazione di tutti gli alimenti legalmente prodotti e commercializzati nell’Unione, “promuovendo” al contempo la fabbricazione di prodotti di qualità, tra cui rientrano potenzialmente anche quelli a marchio made in Italy e non solo le DOP e IGP. In tale regola, possiamo dunque scorgere l’invocato profilo glocale, per uno sviluppo armonico e su “larga scala” anche dei prodotti territorialmente definiti, sempreché si accompagnino ad un’informazione trasparente, anche volontaria, sugli aspetti della origine o provenienza, con un potenziale mercantile differente dalle derrate comuni.

Il considerando n. 30 del Reg. Ue n. 1169/11, in proposito, appare inequivocabile ove afferma che in alcuni casi gli operatori del settore alimentare “possono” scegliere di indicare “su base volontaria” l’origine di un alimento per richiamare l’attenzione dei consumatori sulle qualità del loro prodotto; il che costituirebbe un quid pluris informativo per il consumatore e, parimenti, un innegabile vantaggio competitivo per l’impresa alimentare che sposi un progetto davvero made in Italy.

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