Le nuove forme di Italian Sounding. Ciò che il cibo non dice. Le responsabilità dei produttori e i diritti dei consumatori

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08 Mar 2017

di Raffaella Saso

La forma più classica di Italian Sounding consiste nella commercializzazione di prodotti non italiani con l’utilizzo di nomi, parole, immagini che richiamano l’Italia, inducendo quindi ingannevolmente a credere che si tratti di prodotti italiani. Si tratta di una forma di falso Made in Italy molto diffusa in àmbito internazionale nel settore agroalimentare, nel quale il nostro Paese può vantare, in modo universalmente riconosciuto, una grande varietà di eccellenze.

Oggi occorre però non trascurare la diffusione, accanto a questa pratica totalmente illecita, di una forma più raffinata di Italian sounding, legale, seppur, nei fatti, ingannevole. Un numero sempre maggiore di aziende agroalimentari italiane vengono acquistate da gruppi ed imprese straniere.

Se in passato era frequente la pratica di acquistare all’estero le materie prime per alimenti poi trasformati e lavorati in Italia e venduti come Made in Italy, in questi anni si è invece diffusa in misura crescente la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane.

In questo caso il nome non soltanto suona italiano, ma viene unanimemente associato all’azienda che dal momento della sua nascita, per anni, ha messo sul mercato il prodotto.

Il fenomeno si è notevolmente intensificato nel nuovo Millennio e mostra ulteriori segni di crescita negli ultimi tre anni. Quasi tutti i settori alimentari sono stati coinvolti, dalle bevande alcoliche ai dolci, dai salumi ai latticini.

Gli acquirenti sono soprattutto aziende francesi, svizzere, spagnole e statunitensi. La Francia si è concentrata sul settore caseario, la Spagna sull’olio, i colossi multinazionali svizzeri e statunitensi (rispettivamente Nestlè e Kraft) hanno diversificato gli investimenti orientandosi su tipologie eterogenee di prodotti.

L’assorbimento di una fetta tanto importante del comparto agroalimentare nazionale da parte di aziende estere comporta una serie di conseguenze di diversa natura.

La prima consiste nello svuotare di sostanza il marchio del Made in Italy, poiché sono sempre di più le realtà industriali, grandi e piccole, ormai italiane solo di nome. In molti casi il cambio di gestione determina una perdita della qualità, come conseguenza della delocalizzazione produttiva e della scelta di materie prime non locali. Piuttosto che la valorizzazione della diversità – che rappresenta uno dei valori del Made in Italy autentico – si favorisce l’omologazione.

Questa particolare forma lecita di Italian sounding finisce anche per infrangere il patto di fiducia con i consumatori, tradendone di fatto le aspettative. Solo una minoranza dei cittadini risulta informata su questi cambiamenti di proprietà e gestione e questa asimmetria informativa tra acquirenti e produttori alimentari nel medio-lungo periodo genera diffidenza.

Troppo spesso un marchio, noto e in alcuni casi fortemente connotato come italiano, cessa di costituire una garanzia della provenienza e della qualità dei prodotti, con la conseguenza di creare una più generale sfiducia dei consumatori nei confronti di tutto il Made in Italy.

Ciò accade proprio negli anni in cui tanta parte degli italiani sembra aver preso finalmente coscienza del valore legato al marchio del Made in Italy e tende, conseguentemente, a privilegiare i prodotti legati al territorio e i sapori locali. Se però anche dietro i marchi più noti della produzione nazionale, percepiti come garanzia di qualità elevata e di sicurezza alimentare, si celano alimenti di origine ormai interamente straniera, il consumatore non può non sentirsi sostanzialmente tradito, quando non ingannato, pur in assenza di reato.

È un paradosso tutto italiano. Da un lato si mobilitano energie per diffondere anche nei cittadini meno attenti la consapevolezza del valore aggiunto offerto dal marchio nazionale. E si utilizza il Made in Italy come volano di un settore, quello alimentare, sempre più centrale in tempi di crisi. Dall’altro lato una parte tanto consistente di quelle imprese che del Made in Italy stesso erano rappresentative porta ormai bandiera straniera.

Non si può trascurare il fatto che alcuni dei marchi italiani assorbiti da aziende straniere hanno potuto beneficiare di un processo di efficace riorganizzazione, rilancio e, in definitiva, rafforzamento finanziario. Alcune realtà che rischiavano la chiusura sono riuscite a sopravvivere e, con un gruppo multinazionale forte alle spalle, a reggere il confronto con il nuovo mercato globalizzato, grazie anche ad investimenti che da sole non avrebbero potuto sostenere.

In generale, però, almeno nel settore agroalimentare, l’acquisizione da parte di aziende straniere coincide con lo svuotamento della componente realmente italiana del marchio (in termini di origine delle materie prime e, in alcuni casi, lavorazione) e, talvolta, con l’assorbimento della concorrenza italiana o con una concorrenza irresistibile nei confronti delle altre imprese italiane dello stesso settore merceologico.

Esiste inoltre la possibilità che i gruppi stranieri proprietari di aziende agroalimentari un tempo italiane si spingano ad un passaggio successivo: la chiusura degli stabilimenti italiani ed il trasferimento dell’intera produzione all’estero, dove i costi sono più contenuti. In questo caso si devono considerare i risvolti occupazionali del passaggio di proprietà, laddove la produzione è stata spostata all’estero, per la perdita di posti di lavoro in un settore cardine qual è quello dei prodotti alimentari fortemente connotati come italiani (si pensi all’olio, ai formaggi, ai vini).

E ci sono anche i danni ambientali derivanti dal venir meno degli investimenti per il mantenimento del territorio.

Il Paese per eccellenza della buona tavola e del turismo enogastronomico, indissolubilmente associato al piacere ed alla cura del cibo ed alla sana dieta mediterranea, rischia, paradossalmente, di perdere una parte sempre più consistente del proprio patrimonio, dal celebrato olio d’oliva ai formaggi, dai salumi ai vini. Perdendo quello che è, ancora oggi, un fortissimo segno di identità e distinzione territoriale, ma anche uno dei pochi baluardi in tempi di crisi: non è un caso che le multinazionali trovino ancora estremamente appetibile l’industria agroalimentare italiana – tuttora forte nelle esportazioni – ed abbiano invece abbandonato altri settori industriali.

In questo meccanismo distruttivo basato sul classico Italian sounding e sulle sue forme più raffinate e legali, ma anche sull’agropirateria nelle sue diverse declinazioni, l’Italia è al tempo stesso vittima e colpevole. Il modello di sviluppo italiano si regge infatti troppo spesso su una debolezza etica che determina una complicità tra imprenditori e lavoratori e, complici anche le difficoltà finanziarie, crea una deriva di valore.

Come i tanti casi di cronaca di questi anni testimoniano, nel nostro Paese muoversi in un’area grigia è diventata prassi.
Sono molte le aziende costrette, per sopravvivere, ad adeguarsi a regole imposte dai grandi gruppi: produrre a costi bassissimi per restare sul mercato, il che è possibile solo ricorrendo a materie prime scadenti, sacrificando quindi la qualità.

Sono infatti le grandi aziende, come quelle che stanno acquisendo tante imprese agroalimentari italiane, a determinare i prezzi sul mercato.
I danni che ne derivano sono molteplici: la privazione del marchio, l’abbassamento progressivo della qualità dei prodotti, l’imposizione di standard produttivi bassi alle aziende locali, che dovrebbero essere custodi delle produzioni tipiche e si trovano invece costrette a fare scelte che le mantengano competitive sul mercato.

Chi perde maggiormente in questo meccanismo sono da un lato i produttori locali, costretti ad abbassare qualità e prezzi, impoverendosi, dall’altro lato, ovviamente, i consumatori, cui arrivano prodotti sempre più scadenti.

Nella dinamica che si sta così affermando gli alimenti falsi e di bassa qualità non sono soltanto quelli  prodotti all’estero, ma anche quelli provenienti dalle aziende italiane.
In una cultura dominante dell’autofalsificazione, la volontà di investire davvero nel Made in Italy e tutelarlo rimane minoritaria: non si comprende – o non si vuole comprendere – che la sfida di mercato si vince con l’autenticità e con la qualità. Molti in Italia, al contrario, preferiscono le scorciatoie.

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